La tragedia di Torino, appena accaduta e già drammaticamente pregna di colpevolezza, ci pone l’ennesimo quesito sulla sicurezza del lavoro nel settore delle costruzioni. Sicurezza disattesa, su questo non v’è alcun dubbio. Perché il cedimento di una gru edile e di un’autogrù, il bilancio di morti e feriti in un cantiere di ristrutturazione, non può essere ascritto a fatalità. Qui di fatalità non ce ne sono. Si parla, dai primi rilievi, di un cedimento del terreno su cui era insediata la base della gru a torre. E questo non può essere un evento sfortunato, perché se non si è in grado (o non si vuole, o non si ha tempo) di calcolare la portata del terreno su cui si allestisce un impianto della massima importanza e del massimo rischio potenziale – per chi lavora in cantiere e per le persone che transitano e vivono nelle vicinanze del cantiere stesso – allora l’unica parola che si può usare per definire il modus operandi è incoscienza. Anzi, ce ne sarebbe un’altra: insipienza, termine che aggiunge un’ulteriore stigmatizzazione morale a chi lavora in questo modo.
Ora che tutto è compiuto, saranno le indagini a dare la misura del disastro. Ma la domanda che si pone, una volta ancora, è la seguente: perché, in tempi di rinascita che si vuole virtuosa, in un settore che ha tanto sofferto per crisi economiche a ripetizione, nel nostro Paese si continua a lasciare spazio a certe imprese, a certe pratiche improvvisate, all’insicurezza endemica che causa morte e trascina in basso ogni pretesa economica e industriale di un mondo che ancora cerca legittimazione e autorevolezza, dopo centinaia, migliaia di incidenti? La cronaca è spietata, c’è ben poco da aggiungere a quanto già descritto dai primi testimoni. Tutto è accaduto stamattina, a Torino, in via Genova, dove la gru a torre è improvvisamente crollata dopo quello che i vigili del fuoco, intervenuti tempestivamente sul posto, hanno definito un “cedimento strutturale della base”. Nelle immagini pervenute dal cantiere, dopo la tragedia, si vedono una gru a traliccio danneggiata gravemente dallo schianto a terra, la base effettivamente spezzata, e il braccio dell’autogrù di montaggio piegato e quasi tranciato di netto all’altezza della torretta. Questo disastro totale ha causato la morte di tre operai (uno di soli 20 anni) e il ferimento serio di due passanti (uno all’interno di un’autovettura, da cui è stato poi liberato dopo lo schiacciamento del mezzo).
“Da un primo accertamento c’è stato un cedimento alla base che ha comportato a cascata il crollo della struttura reticolare che serviva per le operazioni di manutenzione della facciata – è la dichiarazione ufficiale del comandante provinciale dei Vigili del Fuoco, Agatino Carrolo – Non escludo altri cedimenti localizzati lungo lo sviluppo della volata della gru”.
L’incidente, nel popoloso quartiere Nizza Millefonti, a pochi passi dal Lingotto, poteva trasformarsi in una strage, a causa del traffico e del passaggio frequente di pedoni nella zona. Quello che è chiaro, al di là dei nomi delle imprese coinvolte a vario titolo – che qui non faremo, convinti dell’inutilità di qualsiasi gogna mediatica – è l’assurdo leit-motiv della trascuratezza colpevole che ancora una volta coinvolge chi deve controllare imprese e procedure. Chi deve costringere le imprese a lavorare senza pressapochismi e con rigore. Chi non può chiudere un occhio su cantieri urbani gestiti in modo dissennato, che devono essere sanzionati immediatamente. Chi non fa formazione sulla sicurezza ai propri operai, esponendoli al rischio di incolumità per le proprie vite, con il ricatto dell’omertà come scelta (pena le minacce e la perdita del lavoro). In questo lutto immane, sono colpevoli tutti, senza alibi. Perché, a fronte del bilancio disastroso delle morti sul lavoro, il settore delle costruzioni, e quello del sollevamento in particolare, detengono un primato nero immorale e increscioso. Un’onta da lavare con la massima severità nei confronti dei colpevoli e con l’improcrastinabile impegno a farla finita con l’improvvisazione criminale di chi deve essere messo nelle condizioni di non fare più danno. Ossia, di non lavorare mai più in un mondo del lavoro che vuole giustizia, rispetto e nuova vita.